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Le finzioni giuridiche nel diritto amministrativo

21 giugno 2012 1)

Diritto amministrativo

La tendenza, successiva alle codificazioni moderne, a tenere distanti le finzioni giuridiche giudiziali a causa della loro intrinseca pericolosità, a mettere in discussione il dato normativo estendendone la portata oltre il parto originario del legislatore, subisce una sensibile inversione di rotta nel mondo del diritto amministrativo, dove l’utilizzo della finzione è costante nella giurisprudenza, come dimostra – statisticamente parlando – l’elevato numero di espressioni quali “come se” o “così come” presenti nelle motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali.

Ciò non deve stupire, infatti il fenomeno trova diverse – e tutte valide – ragioni.

Fin dalla sua nascita, il diritto amministrativo è stato sempre estremamente povero di riferimenti normativi scritti, perciò solo l’attività interpretativa poteva – e può – adattare gli scarni enunciati normativi alle esigenze sociali in costante mutamento. Il giudice amministrativo ha sempre rifiutato il ruolo di mera bocca della legge – anche in periodi di spiccato formalismo – e si è sempre cimentato in ricostruzioni del dato giuridico e di quello fattuale, tra cui – ma non solo – in interpretazioni fittizie. In questa sua attività, l’organo amministrativo – a differenza dei suoi “colleghi” ordinari, soprattutto quelli degli ultimi anni – si è caratterizzato per un ragionamento razionale, 2) tanto che non ha mai trovato l’avversione né della giurisprudenza né della dottrina. Finzione, quindi, giustificata dalla penuria normativa, contingentata dalla necessità di adeguamento del sistema normativo alle istanze di un privato sempre più intento a rivendicare spazi di libertà al potere pubblico, caratterizzata da razionalità, mai avversato o posto in discussione. 3)

Permesso di soggiorno

Primo esempio di decisione “pietosa” del giudice amministrativo 4) – che modifica la realtà giuridica e quella storica, per ottenere un obiettivo di giustizia sociale nel caso concreto posto sotto la sua giurisdizione – è rinvenibile in tema di individui extracomunitari; campo che richiederebbe una maggiore “apertura mentale” del legislatore italiano, talvolta – fortunatamente, come nel caso in esame – compensata dal lavoro dell’organo giurisdizionale.

Una cittadina albanese ottiene il permesso di soggiorno per motivi lavorativi – ex art.33 l.189/2002 – e contrae matrimonio con un cittadino italiano, palesando il suo completo inserimento sociale; tuttavia, in sede di rinnovo del permesso di soggiorno, la P.A. respinge la richiesta, rilevando che la donna, precedentemente – prima dell’inizio del lavoro – era stata sottoposta a un provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera; perciò la donna impugna la decisione dell’Amministrazione.

In teoria il provvedimento avrebbe vanificato la regolarizzazione del rapporto di lavoro e inficiato la validità dell’originario permesso di soggiorno, con la conseguenza che – applicando con rigore e alla lettera la legge – la donna non avrebbe avuto il diritto di restare in territorio italiano.

Il giudice, per evitare tale ingiusta conseguenza – ingiusta in quanto la donna, tramite il rapporto lavorativo, prima, e il matrimonio, poi, aveva dimostrato l’inserimento sociale – ricorre a una finzione giuridica giudiziale. Egli, infatti, non considera il provvedimento impugnato come revoca implicita in autotutela dell’originario permesso di soggiorno, premessa necessaria per il successivo rinnovo, giacché – ai sensi dell’Art. 5, comma 5, D.lgs.286/1998 – ciò avrebbe comportato la doverosa – in quanto attività vincolata – revoca del permesso di soggiorno ordinario. Invece, il giudice attribuisce al provvedimento impugnato il nomen iuris di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno.

La finzione è evidente: il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno non può essere assimilato alla revoca implicita in autotutela né dal punto di vista formale né dal punto di vista sostanziale. «Che il diniego di permesso di soggiorno non abbia la forma di una revoca, lo riconosce esplicitamente il Consiglio di Stato quando immagina che esso abbia “la sostanza di un provvedimento di autotutela nei confronti del permesso di soggiorno originario”. Che poi esso non possa avere neppure la sostanza invocata, si deduce da un elementare principio di logica giuridica: non è ragionevole rimuovere dall’esistente giuridico un atto, la cui operatività è venuta meno con lo spirare del termine di efficacia; l’originario permesso di soggiorno che dovrebbe essere oggetto di autotutela non è più operativo, perché non è stato concesso il rinnovo che poteva prolungare l’efficacia nel tempo stabilito». 5)

L’organo amministrativo va oltre. Operante solo la suddetta equiparazione, per la donna non sarebbe comunque possibile restare in Italia, poiché il rilascio del permesso di soggiorno è comunque ostacolato dal precedente provvedimento di espulsione. A questi fini il giudice, riprendendo la disciplina della revoca implicita in autotutela del permesso di soggiorno che contiene una norma che consente di tener conto della situazione familiare, nonché invocando il diritto alla vita privata e familiare – di cui all’Art. 8 CEDU, vincolante ex art.117.1 Cost. - introduce una nuova regola giuridica che permette di raggiungere un risultato – la permanenza della cittadina albanese in territorio italiano – altrimenti irraggiungibile stante l’applicazione letterale della normativa vigente.

Poco importa che siano sacrificati gli sforzi del legislatore di trovare un bilanciamento in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, dove è necessario far convivere i diritti dello straniero e l’ordine pubblico. Poco importa che questo costituisca chiara deroga alla normativa vigente. Poco importa che ciò crei un effetto incertezza per gli operatori giuridici, che si trovano di fronte a un dato normativo con un determinato tenore e un’applicazione pratica che va in direzione diversa. Poco importa se il giudice «adotta una decisione che non risponde alla regola legale e neppure all’impianto giuridico considerato». 6) Questa volta le esigenze di effettività – e della c.d. aequitas tanto cara ai romani – devono prevalere.

Legittimazione attiva a impugnare le licenze edilizie

La giurisprudenza amministrativa – lo si è visto – più volte si è ribellata dal dato normativo, per andare incontro a esigenze concrete della società.

Un esempio è rappresentato dal caso qui preso in esame, 7) c.d. decisione del “chiunque”. 8)

Prima della legge-ponte la legittimazione attiva a impugnare le licenze edilizie è fortemente ristretta: essa, infatti, spetta solo al c.d. proprietario frontista, cioè a colui che, per diverse ragioni – per esempio diminuzione di veduta o di luce - subisce un danno dalla costruzione de qua. 9)

Un cambio di rotta si ha con la legge 765/1967 – c.d. legge ponte – il cui Art. 10 prevede che «chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della concessione edilizia…»; la norma mira a estendere la legittimazione attiva a impugnare le licenze edilizie a chiunque, ma finisce – almeno nell’interpretazione del Consiglio di Stato – per introdurre una sorte di azione popolare, intesa come azione esperibile da soggetti non titolari di posizioni di diritto soggettivo o interesse legittimo, in deroga al principio generale per cui per proporre una domanda o per contraddire alla stessa occorre avervi interesse.

Il Consiglio di Stato produce l’ennesima variazione di direzione, questa volta contingentata dal sistema politico-istituzionale: infatti, gli anni ’70 sono un periodo in cui lo Stato è caratterizzato da una tendenza liberale e si predica garante della libertà di tutti.

Estendere a chiunque la legittimazione attiva a contestare il provvedimento col quale la P.A. autorizza l’edificazione di un terzo, si pone in contrasto con tale visione del mondo e, soprattutto, con tale contesto storico per svariate ragioni. «È difficile intendere la ragione di una costante sovrapponibilità dell’iniziativa censoria generalizzata della comunità sull’azione di amministrazione attiva che è svolta dai propri rappresentanti (da essa eletti) sotto il controllo delle Autorità statali competenti e tecnicamente idonee». La patologia nella composizione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato deve essere rilevabile sul presupposto della lesione di una specifica situazione giuridica e non sulla base di una legittimazione attiva conferita a chiunque indistintamente.

Per tutti questi motivi Il Consiglio di Stato sancisce che legittimato attivo è solo il titolare di un interesse legittimo – da intendersi, ovviamente, come qualificato e differenziato - secondo il c.d. criterio dell’insediamento abitativo, in base al quale «la legittimazione ad agire non sarebbe estesa a tutti i cittadini, ma solo a coloro che vantino la titolarità di un interesse che si pone in una situazione di stabile collegamento con l’area su cui il provvedimento contestato interviene». 10) La finzione consiste nell’attribuire al pronome indefinito chiunque – che esprime una tipologia indistinta di legittimati, ovvero tutti – una determinazione e specificazione.

Che poi, negli anni successivi, il Consiglio di Stato abbia riallargato la portata del chiunque non evidenzia un ritorno sui propri passi, ma un avanzamento ulteriore, dovuto alla nuova estensione del concetto di interesse legittimo. «Se prima il giudice amministrativo ha (consapevolmente) finto che il pronome “chiunque” (scritto nella norma) non fosse sufficiente per fare accedere ognuno alla giustizia, ma abbisognasse di una specificazione (chiunque abbia o sia), oggi, interpreta il concetto di legittimazione nel senso che essa coincide con la situazione di fatto in cui si trova il singolo, e che questa situazione, la quale rende godibile il vantaggio che egli vuole ottenere con il processo, valga a differenziarlo dal quisque de populo. 11)

Silenzio assenso

Il diritto amministrativo – si è detto – si pone in controtendenza rispetto agli altri settori dell’ordinamento giuridico per quanto riguarda l’uso di finzioni giuridiche giudiziali, essendo quello più ricco di queste; ciò non toglie, tuttavia, che anche il mondo amministrativo consti di finzioni di tipo legislativo, una delle quali – la più immediata – è proprio il silenzio assenso.

L’Art. 20 della legge 241/1990 – rubricato proprio “silenzio assenso” – prevede, in estrema sintesi, che, qualora una parte avvii un’istanza e il termine massimo per la conclusione del procedimento spiri senza che la P.A. risponda o ritenga di indire una conferenza di servizi, allora l’istanza deve intendersi accolta.

In pratica, il legislatore equipara una fattispecie – il silenzio – a una diversa – l’assenso – e assume come rilevante l’inerzia della P.A., attribuendole gli effetti dell’accoglimento dell’istanza e sottoponendola al regime giuridico dell’istanza accolta.

Anche in questo caso la finzione legislativa è creata per risolvere un problema pratico: si tenta di ovviare all’inerzia, con la quale sovente la P.A. reagisce – rectius non reagisce – alle istanze dei privati, ponendo un onere di risposta, in mancanza del quale si finge che vi sia stato un assenso, quando in realtà vi è stato silenzio.

Inoltre, la previsione in base alla quale, una volta maturato il silenzio assenso, la P.A. può sempre annullare in autotutela il provvedimento di accoglimento derivato dal silenzio, non fa altro che riconfermare la finzione: infatti, il presupposto per l’attivazione in autotutela è proprio la consolidazione di un provvedimento di accoglimento derivante dal silenzio assenso, il che ribadisce che, in precedenza, una non reazione da parte della P.A. è stata assimilata – con una finzione – a un’azione.

Lo stesso dicasi per la possibilità di sottoporre l’assenso collegato al silenzio all’ordinario vaglio di legittimità degli organi giurisdizionali: pure questa norma parte dal presupposto del silenzio come assenso, così ribadendone il carattere di fictio iuris.

Donazione di organi e tessuti

Una sorte di silenzio assenso è ravvisabile anche nel settore della donazione di organi e tessuti post mortem.

La legge 91/1999 all’Art. 5 prevede che il prelievo di organi e tessuti successivamente alla dichiarazione di morte è consentito – oltre che se il soggetto ha espresso in vita dichiarazione di volontà favorevole al prelievo – se il soggetto, pur non avendo espresso in vita nessuna dichiarazione di volontà favorevole al prelievo, sia stato adeguatamente informato e non abbia presentato in vita una dichiarazione autografa di volontà contraria.

La finzione è duplice: si equipara il silenzio dell’individuo a un “sì” al prelievo e si finge adeguata l’informazione fornita dalle organizzazioni destinate per legge a informare i cittadini. «Non si vede infatti come si possa ritenere capaci di tanto gli uffici amministrativi delle Asl, che non riescono ancora a fornire informazioni elementari sulle attività sanitarie e le prestazioni ricevute o richieste dai cittadini. È inoltre una finzione giuridica che si possa ritenere espresso il consenso alla donazione del cittadino che non esprime esplicitamente la propria volontà, ritenendo adeguata l’informazione che sarà fornita attraverso la stampa e la televisione». 12)

L’obiettivo del legislatore è quello di aumentare il numero delle donazioni e, quindi, dei trapianti. Ma finisce per creare non pochi problemi: infatti, «presumere che il silenzio dell’individuo possa essere concepito come assenso alla donazione significa minimizzare pericolosamente il valore del consenso informato, disconoscere il valore dell’autonomia decisionale e ammettere la liceità giuridica dell’assenso inconsapevole… [si] finisce con il privare l’individuo della garanzia di poter disporre del proprio corpo». 13)

Diritto sportivo

Alcune finzioni si ritrovano anche nel diritto sportivo; è possibile pure in questo caso parlare di finzioni giuridiche, essendo il mondo sportivo dotato di un vero e proprio ordinamento.

Nelle gare dei tuffi il Regolamento FINA all’Art. D.7.5 dispone che «nelle gare individuali quando operano sette (7) Giudici le segreterie devono cancellare i due (2) voti più alti e i due (2) più bassi… Se operano invece solo cinque (5) Giudici, le segreterie devono cancellare il più alto e il più basso dei voti». Quindi, l’attuale modo di determinazione del punteggio di un tuffo si basa – o comunque contempla – una finzione latu sensu giuridica; infatti, la valutazione dell’atleta non è calcolata sulla base della media aritmetica dei voti espressi da tutti i giudici, ma eliminando i voti più alti e quelli più bassi: la finzione consiste nel far finta che quei giudici che hanno espresso tali voti, in realtà non abbiano votato.

Staff di Extrapedia Freedom


2)
In senso contrario A.GAMBARO, “Costi e benefici delle finzioni giuridiche”, a cura di F. Brunetta, Le finzioni del diritto, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova, Milano 2002, 135.
3) , 5) , 6) , 11)
4)
Consiglio di Stato, sez.VI, decisione 15 giugno 2010, n.3760.
7)
Consiglio di Stato, sez.V, 9 luglio 1970, n.523.
8)
E. Guicciardi, La decisione del “chiunque”, in Giur. it. 1970, III, 1, 193 ss.
9)
Spagnuolo Vigorita, “Interesse pubblico e azione popolare nella «legge-ponte» per l’urbanistica”, in Riv. giur. edil. 1967, II, 393.
10)
F.SAITTA, “L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere”, Convegno Cittadinanza e azioni popolari, Copanello, 29-30 giugno 2007.
12)
P.MICOSSI, “Così la persona umana viene ridotta a organi”, ilSole24Ore, giovedì 24 febbraio 1999, http://centrotobagi.altervista.org/trapianti.html
13)
R.BARCARO, “Bioetica e nuova legge sui trapianti d’organo”, Genova, http://centrotobagi.altervista.org/trapianti.html
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